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(Non) Leggere attentamente il foglio illustrativo

Questo pezzo non so bene dove vada.

Si incastra? Non si capisce.

Sembrano sempre chiare le istruzioni, finché non ti cimenti nella loro effettiva esecuzione. E allora sì che sorgono i problemi.

Ruotiamo, avvitiamo, spingiamo, pieghiamo, accostiamo. In attesa del fatidico clic, l’agognato scatto che ci ripaga degli sforzi compiuti.

Ma il più delle volte sentiamo solo un sonoro crac, l’orrido rumore che annuncia un’irrimediabile frattura.

Panico.

Porre rimedio non si può: il perno è saltato, la plastica è sbeccata, la guaina è abrasa.

Sospiriamo. Un altro fallimento.

Eppure le istruzioni sembravano chiare.

Truth be told, 2017, Installation View, Frutta

Perché il mondo d’oggi è così: un gigantesco balocco incompiuto, un mobile dagli incastri così complessi da dissuadere chiunque da ogni tentativo di montarlo.

Se sei lento, perdi i passaggi; se sei distratto, perdi i pezzi; se sei incauto, rischi di rompere parti meccaniche fondamentali, e buttare all’aria tutto.

No, non è disfattismo.

La definirei più una pragmatica forma di realismo disincantato.

Disfacimento, allora. Sì, una perenne tensione verso il disfacimento di qualsiasi ordine costituito. La definizione ha il suo fascino.

Caspita, ora sì che suona pessimistico però.

Ma credo ci sia un fondo di verità in tutto questo, in questa nostra, tutta contemporanea, smania di collocare ogni minima cosa al posto giusto.

Per finire poi col ritrovarsi tra le mani uno o più monconi che non sappiamo dove porre.

Assimiliamo, voraci. Corriamo a perdifiato, afferriamo al volo.

Ci accaparriamo tutti gli ingredienti a nostra disposizione, lì per il nostro esclusivo usufrutto, approfittando di un’accessibilità totale, di un facile reperimento.

Vogliamo avere pezzi di ricambio, in vista della prossima rottura.

A volte, invece, non disponiamo degli strumenti necessari.

Tre viti invece di quattro, penuria di bulloni, drammatica carenza di tondini in ferro.

Abbiamo solo un cacciavite a stella, quando ce ne servirebbe uno piatto. O viceversa.

La brugola non è della misura giusta.

Eppure scopriamo che gli innesti si possono fare in altro modo, adoperiamo mezzi di fortuna per supplire alla mancanza di quantità o adeguatezza dei materiali.

A volte basta un giro di nastro isolante, un rattoppo strategico, una cucitura raffazzonata. Non bella, certo, ma almeno funzionale, pur nella sua provvisorietà.

L’ingegno non ci manca, e nemmeno la buona volontà.

Visto? Sono capace anch’io di essere ottimista.

Essere creativi credo voglia dire proprio questo. Sapersi arrangiare, trovare soluzioni, scovare alternative. Inventarle, se necessario.

Vuol dire saper guardare in modo diverso, uscire dagli schemi, rompere le convenzioni, sfuggire alle imposizioni.

Mi rendo conto che, paradossalmente, sembrano luoghi comuni. Forse lo sono.

Ma qualcosa riusciamo sempre a combinare, qualcosa di diverso, magari anche di nuovo.

Non voglio dire che sia facile, almeno non sempre.

L’omologazione è una tentazione che seduce anche noi artisti, basta guardare i trend di mercato. Scivolare nella banalità, ancor peggio nel kitsch, è un attimo.

La storia e il presente ci forniscono un numero vertiginosamente alto di stimoli e modelli, ci sono interi mondi da cui possiamo attingere a piene mani, ora più che mai.

Campionari, cataloghi, manuali. Sono tutti dei libretti di istruzioni: basta seguirli per ottenere un prodotto pronto all’uso.

Il punto è: non farsi ingannare da questa illusione di libertà.

La mia opera ha un carattere molto urbano, quasi pop.

Un murales dai colori sgargianti che crea un ambiente immersivo.

Però non è l’emulazione di un brano di street art: qua e là alcune porzioni si possono asportare come dei quadri da cavalletto.

Il fatto di aver scelto un genere in voga mi è servito innanzitutto per offrire un contesto.

Sulle pareti ho disseminato una serie di figure spurie: un pappagallo, una torcia elettrica, un diamante.

Compaiono anche delle sagome a forma di frutti prelevate direttamente dalle stampe firmate IKEA.

Potrei avere piccoli problemi legali, ne sono consapevole.

Però mi è sembrata un’operazione più che legittima, sintomatica della nostra contemporaneità composita e ibridata. Quindi ho osato.

No, non occorre leggervi significati simbolici o riferimenti occulti.

Non sono nemmeno un riferimento al nome della galleria - anche se in effetti è un coincidenza spiazzante.

Alcuni sono semplicemente tratti da opere precedenti.

Lo ammetto, c’è un pizzico di giocosa autoreferenzialità in tutto questo.

Truth be told, 2017, Installation View, Frutta

Qualcuno ha interpretato il mio lavoro come un’indagine sulle commistioni tra citazionismo e originalità creativa, sui confini tra appropriazionismo e propositività.

Una riflessione sull’attualità del ready-made; una disamina ironica dei codici comunicativi nella società globalizzata.

Indubbiamente ci sono anche queste componenti.

Così come c’è anche molto altro.

E molto meno di quanto si pensi.

Insomma, ho giocato sugli accostamenti, proponendo un insieme eterogeneo di possibilità visive.

Come un kit per affrontare - e vivere - il nostro tempo.

Così splendidamente contradditorio.

Frutta Gallery [Roma, Via dei Salumi 53]

fruttagallery.com

Truth be told

GABRIELE DE SANTIS

19 gennaio - 04 marzo 2017

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