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Breve guida al consumo di una mostra utopica

17/04/2017

di Edoardo Maggi

AVVERTENZA:

 

SI AVVISANO I GENTILI LETTORI CHE TALE GUIDA, DI CARATTERE PURAMENTE ORIENTATIVO, SI PROPONE, PRENDENDO PUNTUALMENTE IN ESAME IL REGOLAMENTO AZIENDALE, DI FORNIRE INDICAZIONI DI MASSIMA SU COME ESPERIRE AL MEGLIO L’ESPOSIZIONE E CONTRIBUIRE QUINDI A DELINEARE POSSIBILI LINEE IMPRENDITORIALI. LE SINGOLE MODALITÀ D’OSSERVAZIONE, RIFLESSIONE E ACQUISIZIONE SONO LASCIATE ALL’INTELLIGENZA E ALLA SENSIBILITÀ DEL VISITATORE-CONSUMATORE.

PERTANTO L’EDITORE NON SI ASSUME LA RESPONSABILITÀ DI UN’EVENTUALE MANCANZA DI COMPRENSIONE DELLE DINAMICHE CONCETTUALI DA PARTE DEL PUBBLICO.

 

 

Par. I

ADOTTARE UNA PECORA: ISTRUZIONI PER L’USO

 

L’Agenzia invita esplicitamente il Cliente a lasciare da parte ogni possibile pregiudizio o inibizione che possa in qualche modo compromettere in maniera difficilmente reversibile la relazione con il Prodotto, pregiudicando la resa ottimale delle sue caratteristiche.

 

Una volta presa visione dell’indicazione preliminare di cui sopra, ne consegue che:

 

1. Il Cliente si impegna, pena la revoca immediata di ogni diritto di paternità, ad accudire il

Prodotto amorevolmente e a garantire l’assoluta idoneità delle condizioni dell’ambiente in cui il Prodotto verrà inserito.

Nello specifico, il Cliente dovrà assicurare quantomeno i seguenti diritti:

 

a) Nutrizione. Da intendere i termini non canonici ma come una somministrazione regolare di dosi giornaliere di energia mentale, derivante da (si elencano di seguito alcuni esempi): macchinazioni cerebrali squisitamente irrealizzabili, voli linguistici pindarici, salti di pensiero, elucubrazioni filosofiche a-funzionali, discorsi interiori di assurda complessità, incontri fortuiti, dialoghi impossibili ecc.

 

b) Movimento. Avvalendosi delle apposite maniglie e sfruttando la leggerezza del materiale, il Cliente è tenuto a portare con sé il Prodotto ovunque egli si rechi. Si rimarca che l’adozione/accudimento della Pecora è da intendersi come un’esperienza reale volta a sviluppare le piene potenzialità di un esperimento sociale finalizzato alla costituzione di una Comunità di Pastori alla guida di un Gregge Simbolico.

 

2. In riferimento al punto 1.b) il Cliente si dichiara disponibile a diffondere, attraverso il

trasporto fisico del Prodotto, i principi fondamentali che tale Comunità si propone di affermare. Nello specifico:

 

a) Un’idea di socialità in senso ampio e allargato in cui più persone si riconoscano.

 

b) La stimolazione ad ampio raggio di quelle attitudini atte al miglioramento delle relazioni interpersonali in un mondo egoistico sempre più tendente alla frammentazione.

c) La condivisione disinteressata delle “proprietà affettive e identificative tipiche della cura di un animale vivente”. 

 

3. Il Cliente dovrà sempre ricordare che la suddetta Pecora è:

 

a) Un Prodotto della Creatività soggetto alle leggi vigenti circa il diritto d’autore e in quanto tale vincolato a restrizioni che impegnano il Cliente a sottostare alle norme di copyright e a soddisfare le clausole contrattuali.

 

b) Un’Opera d’Arte nel significato più ampio e lato del termine interpretabile come (seguono alcuni esempi): strumento insospettabile di solleticamento del pensiero,  indefinibile mezzo del cambiamento socio-politico, totem comunitario con potere coagulante, strategia di educazione etica e sentimentale ecc.

 

4. Il Cliente dovrà sempre ricordare che la suddetta Pecora NON è e non può essere:

 

a) Un mero oggetto d’uso domestico o a scopo ludico. Pertanto se ne proibisce l’utilizzo come (seguono alcuni esempi): fermacarte, ferma-porta, ferma-libri, ferma-qualsi-cosa, banderuola, bandierina segnaletica, complemento d’arredo, sottopentola, sottobicchiere, vassoio, tagliere, tavolozza, lavagnetta, bacheca ecc.

 

b) Un surrogato sessuale.

 

c) Un animale reale. Si sconsiglia dunque, in via del tutto preventiva, di allevarlo per la produzione, seppur ideale, di fantasie lanuginose e delizie casearie, o per il consumo, parimenti ideale, di tenerezze carnose. La Pecora non può in alcun modo essere accostata, nemmeno ipoteticamente, a un qualunque bene di consumo.

 

d) Un bersaglio su cui sfogare ansie e frustrazioni.

 

e) Qualsiasi altra cosa non confacente alle proprietà specifiche del Prodotto.

 

5. Il Cliente è consapevole di essere soggetto al rigoroso controllo da parte dell’Agenzia e di dover rendere conto, ogniqualvolta gli venga richiesto, degli spostamenti effettuati in possesso del Prodotto.

 

N.B.: Per ulteriori e più dettagliate informazioni circa la manutenzione ordinaria del Prodotto si rimanda al Manifesto affisso nel punto di esposizione-vendita.

 

 

Par. II

COMMERCIO “TERRA-A-TERRA”: NORMATIVA DOGANALE

 

Presa visone delle Leggi che regolano il libero scambio, si ricorda che:

 

1. Le Casse sono Oggetti Ibridi rispondenti sia alle Leggi sopra menzionate sia alle Regole, scritte e non scritte, su cui si basa la circolazione di idee e pensieri, essendo le suddette Casse parimenti destinate al Reciproco Scambio Culturale e all’importazione/esportazione di Materie Prime Simboliche.

 

2. Ne consegue che, in virtù dei principi delineati al punto II.1:

 

a) Le Casse dovranno contenere e trasportare unicamente terra. Chiara, scura, fine, granulosa, inerte, odorosa, composita, asciutta, umida, secca, ma pur sempre e comunque, inderogabilmente terra.

 

b) Per garantire la sicurezza delle frontiere e agevolare i controlli è consigliabile segnalare sempre provenienza e destinazione del carico, rendendo subito note alle autorità Generalità Identificative e Piani di Evacuazione.

 

3. Le Casse sono inoltre da considerarsi:

 

a) Emblemi materiali della libertà di movimento, inteso sia in senso fisico (spaziale e temporale) che mentale, come fluttuazione trans-territoriale di strutture intellettuali e sovrastrutture culturali, di cui la terra rappresenta l’essenza concettuale.

 

b) Ingombri volumetrici dall’aura vagamente misterica: forzieri dall’apparenza dimessa ma dal contenuto sorprendente (è infatti incredibile la varietà di consistenza e colorazione che possono avere i diversi campioni di terreno).

 

c) Monumenti totemici, transitori e transitanti, dal valore sottilmente antropologico, forieri di mitologie e ritualità sia ancestrali che contemporanee.

 

d) Mezzi di affermazione su scala (potenzialmente) mondiale di due sommi principi tra di essi speculari: l’incentivazione a riconoscere l’uguaglianza nella diversità e, viceversa, il rispetto per le singolarità storiche, regionali e nazionali, tutte accomunate dallo scambio reciproco di un elemento naturale dal significato universale.

 

e) Un messaggio di apertura e comunione interculturale implicante un ottimistico invito al sano cosmopolitismo.

 

e) Un Dono totalmente gratuito.

 

4. Le Casse NON sono invece da considerarsi:

 

a) Alloggiamenti mortuari.

 

b) Container di fortuna in cui stipare ciarpame ideologico, cianfrusaglie solipsistiche e rimasugli nostalgici

 

c) Teche per rettili o per qualunque altra specie animale (larve, lombrichi e piccoli insetti che potrebbero già trovarsi nel terreno al momento del prelievo).

 

Presa visione delle misure cautelari contro l’introduzione illecita di materiale illegale e delle misure restrittive nei confronti del problema migratorio, si dichiara che:

 

5. L’Agenzia non può essere in alcun modo ritenuta responsabile della crescita spontanea

di vegetazione tossica e dell’apparire accidentale di piante i cui utilizzi sono vietati o ristretti ai sensi della normativa vigente circa l’assunzione di farmaci e sostanze stupefacenti.

 

6. L’Agenzia non può rispondere del ritrovamento, all’apertura delle Casse, di persone

(miracolosamente vive o tristemente decedute) che si sono indebitamente introdotte al loro interno a scopo elusivo o di espatrio. Tali eventuali ritrovamenti sono da ritenersi risvolti estremi, e altamente improbabili, delle peculiarità intrinseche all’esperimento stesso e al suo valore di “trasfusione geografica e culturale senza confini”.

 

 

Par. III

USUFRUTTO DI SOLUZIONI IMMAGINATIVE: MODALITÀ D’IMPIEGO

 

1. Si rammenta al Consumatore che gli Oggetti in esposizione, presentati ancora in forma

puramente progettuale, hanno il carattere di:

 

a) Invenzioni innovative volte al rafforzamento della fibra immaginifica che costituisce il sostrato cerebrale più profondo dell’essere senziente.

 

b) Brevetti esclusivi finalizzati alla realizzazione di imprese spettacolari.

 

c) Cortocircuiti fantasmagorici potenzialmente responsabili di fermenti estetici imprevedibili e associazioni neurali deflagranti.

 

d) Assemblaggi, in egual modo materiali e ideativi, di forme significanti e contenuti sottilmente epistemici.

 

e) Esercizi cognitivi di arbitraria applicazione (grazie alla loro plasticità sperimentale).

 

2. Per estrinsecare al meglio le potenzialità innovative degli Oggetti si consiglia vivamente

di tenere a mente i seguenti suggerimenti:

 

a) Considerare la loro assurdità come uno stimolo alla produttività narrativa.

 

b) Non lasciarsi scoraggiare dalla loro apparente irrealizzabilità: l’iniziale incomprensione porta sempre al raggiungimento di nuovi stati di consapevolezza.

 

c) Non assegnare loro compiti di natura esclusivamente pragmatica (investirli di volontà teleologiche può risultare infatti controproducente).

 

3. Gli Oggetti assumono scopi e funzioni diverse in base ai contesti in cui vengono adoperati. La loro adattabilità esecutiva è quindi inevitabilmente (e fenomenologicamente) condizionata dalle singole situazioni interpretative.

 

 

Par. IV

PROIEZIONE IN AMBIENTE IPOGEO: NORME DI COMPORTAMENTO

 

1. Prestare attenzione ai gradini (non particolarmente infidi ma pur sempre elemento di

sorpresa rispetto al procedere piano e/o rettilineo normalmente imposto dai percorsi espositivi).

 

2. Mettersi comodi (ma non troppo).

 

3. Non lasciarsi ingenuamente sedurre dalla penombra e dal placido dondolio della sedia

(un modello IKEA denominato Poang appositamente studiato per indurre, se non sonnolenza, quantomeno uno stato di lieve torpore).

 

4. Attivare ogni cellula ricettiva del corpo per preparare la mente a ogni evenienza.

 

5. Aspettarsi qualcosa, attendere un accadimento.

 

6. Non rigettare il sottile stato di tensione progressivamente generato: è parte integrante

dell’esperienza.

 

7. Nascondere perplessità e disappunto qualora le aspettative venissero disattese.

 

8. Compilare diligentemente l’apposita modulistica (senza però soffermarsi eccessivamente sul riempimento di alcuni spazi).

Start up | Quattro agenzie per la produzione del possibile

Fondazione Baruchello [Roma, Via del Vascello 35]

A cura di Maria Alicata e Carla Subrizi

09 novembre 2016 - 28 aprile 2017

Speciale RAW

17/11/2016

Vi riproponiamo tutti i commenti a caldo che abbiamo scritto durante le nostre appasionate ricognizioni. Godetevele (ancora)!

1.

La Fondazione Pastificio Cerere inaugura la stagione con Transnational Capitalism Examined: Dancing on Systemically Important Graves, una mostra di Oliver Ressler. In questo progetto, realizzato per la maggior parte da brevi film e da alcuni digital drawings, entrano in gioco i partecipanti principali dell'economia capitalista globale: imprese di sicurezza che addestrano alla competitività sociale (The fittest survive 2006), banche (The Bull Laid Bear 2012), eventi climatici estremi (Leave it in the ground 2013), lo sfruttamento del nord del pianeta nei confronti del sud (The visible and the invisible 2014). La critica al capitalismo globale e ai suoi sistemi: bancario, carcerario, commerciale e ai suoi effetti disastrosi sull'uomo e sulla natura.

2.

Del grande progetto di Rome Art Week fa parte anche la serie di mostre Transfusioni (a cura di Anna D'Elia e con il contributo di Bianca Menna, Silvia Stucky e Paola Romoli Venturi) che mette in dialogo le opere di Luca Maria Patella (classe 1934) e Federica Di Carlo (1984). Lo spazio del cielo e la sua luninosità cromatica vengono studiati da entrambi gli artisti, accomunati dalla passione per l'arcobaleno e le sue magiche prospettive. In mostra sono la famosa fotografia di Luca Maria Patella Tessitura solare con arcobaleno e l'opera di Federica Di Carlo Misurazione diffusa, ideata proprio per creare da un capo all'altro della sala un confronto diretto con l'opera del maestro. Entrambi affascinati dal binomio arte/scienza i due artisti indagano anche lo spazio umano dando la possibilità agli spettatori di misurarsi materialmente e ontologicamente con esso.

 

3.

Le architetture effimere e illusionistiche del collettivo SBAGLIATO rendono irriconoscibile lo spazio della Galleria Varsi, che attualmente ne ospita la mostra personale fino al 13 novembre. Dall'ingresso lo spettatore è diretto verso qualcosa di ignoto e, attraversando un labirinto, scorge quasi di sorpresa fotografie e disegni che riproducono l’elemento ascensionale e discensionale della scala.

Dal senso di spaesamento e confusione indotto intenzionalmente dal collettivo, nasce il nome della mostra: Vertigine.

Come nelle architetture inattese e generatrici di varchi ciechi nella città, l’istallazione e le opere in essa contenute, inducono un moto incerto e curioso, invocando, appunto, la sensazione prodotta dalla vertigine stessa. 

Uscendo si scopre di aver compiuto uno strano percorso: quello che sembrava essere solo un labirinto è in realtà pensato anch’esso come una scala. Si affacciano dei dubbi: l’abbiamo percorsa verso il fondo o verso la vetta? Abbiamo guardato in basso spaventati dall’altezza e dalla distanza tra noi e il suolo o guardato verso l’alto con la curiosità di arrivare in cima?

4.

Oggi viene reso omaggio al grande artista Valeriano Ciai attraverso la mostra Valeriano Ciai, Opere Grafiche allestita in contemporanea presso il MLAC - Museo Laboratorio di Arte Contemporanea e il Museo di Roma in Trastevere, dove le opere pittoriche dell’artista sono esposte in un ulteriore percorso che ne illustra sapientemente la carriera artistica (Valeriano Ciai, 1928-2013, Segni e Memorie).

L’irrequieta grandezza che anima le figure umane desolate, sole nonostante la moltitudine di segni, arricchiscono la produzione grafica dell’artista, che oltre alla pittura si cimenta con la calcografia. 

La matrice intagliata, il mestiere dell’artigiano che paziente esegue l’incisione per donare alla composizione la giusta vibrazione. Le opere di Ciai sono poesie vibranti, toccano le corde della  memoria prima ancora che la vista.

 

5.

Nature Diverse è il titolo di una collettiva ospitata negli ambienti di VisionArea Art Space, nel complesso dell’Auditorium in Via della Conciliazione. In mostra i lavori di Matteo Basilé, Simone Bergantini, Teresa Emanuele, Angelo Marinelli, Francesca Romana Pinzari, Davide Sebastian, Maria Semmar, Melati Suryodarmo.

Natura e cultura, naturale e artificiale. Da sempre la Natura è considerata uno spazio vergine, la dimensione incontaminata in cui nascono le cose. Mondo primordiale e selvaggio, la Natura costituisce da sé le proprie regole, essa genera e si rigenera autonomamente ridefinendo ogni volta le regole che governano la vita. 

Agli otto artisti è stato affidato il compito di raccontare, attraverso opere diversissime, la loro personale concezione della Natura e il rapporto che hanno con essa. Che sia una geografia astratta o un luogo preciso nella topografia di un paesaggio, che sia il ritratto di un animale o l’impronta di una pianta, che sia il residuo di un corpo un tempo vibrante di energia o un sentimento di atavica inerzia, il naturale emerge sempre in quanto sostanza e potenza insieme di un cosmo che trascende ogni possibile sforzo antropico.

 

6.

Alessandro Pangiamore presso Magazzino: Impressioni di fiori, raccolti, trovati; affogati nel cemento. La durezza di un possibile muro o duro pavimento è resa quasi eterea da queste impronte delicate. 

 

7.

In caso di dubbio, Myriam Laplante, COLLI independent Art Gallery. 

La struttura di una poltrona diventa un mobile componibile su cui poggiare un vaso di fiori, o meglio appenderlo al rovescio, perché la parete è diventata pavimento. L'imbottitura scucita dov'è? Forse sotto la moquette. L'artista Myriam Laplante vuole riflettere sulla pluralità di significato delle cose, sul rovescio, sul diverso e il differente. Pone domande, instilla riflessioni.

 

8.

Corpo e sangue, doppia personale di Daniela Papadia e Valerio Giacone.

Papadia crea un’istallazione con i ritagli della grande tovaglia su cui nella precedente performance itinerante hanno mangiato 36 commensali e i piatti del banchetto sui quali ogni partecipante è stato chiamato a scrivere una parola.

Al cospetto della riproduzione in ricamo del genoma umano, che svetta sulla tovaglia, svanisce qualsiasi preconcetto raziale e di classificazione culturale: il sangue ci accomuna tutti, come il cibo, il mangiare insieme, il condividere.

C’è una volontà di tornare alle origini, a momenti in cui ancora non si è soggetti a disuguaglianze da altri decise e imposte. Archetipi in cui l’uomo viveva nel suo habitat originale; in cui il suo corpo si fondeva con gli elementi naturali, come ci mostra Giacone nella sua istallazione: un monolocale composto da un letto in fibra di canapa, con rami e cera sciolta come arredamento. Elementi di scarto della produzione industriale con cui l’uomo può tornare a vivere in uno scambio fiorente con la materia povera.

9.

Open studio, Stefano Maria GirardiDella follia: Questa danza dionisiaca fra menadi e satiri toccherà l'apice "della follia" venerdì alle ore 19 con l'accompagnamento musicale di violino e contrabbasso del duo Canto di Enea.

 

10.

Frammenti, Accademia d'Ungheria

La mostra riunisce i progetti di borsisti e residenti della prestigiosa Accademia ospitata negli spazi di Palazzo Falconieri. I cinque filmati proposti dagli artisti vincitori presentano interessanti affinità e differenze, ma condividono la volontà di cogliere il carattere surreale della realtà. Muovendosi tra spazi urbani, occultamenti percettivi e discrepanze uditive, i video, tramite spaesamenti sensoriali, negano la possibilità di ricomporre una coscienza unificata.

 

11.

Infissi presenta Assenze, ciclo di performance a cura dell'associazione culturale ESTHIA.

Martedi 25 ottobre: performer Stefania Soskic.

Gesti semplici, abitudinari nella routine di uno spazio privato.

Gesti ripetitivi di scomposizione e ricomposizione.

Gesti in attesa che si verifichi qualcosa, che si manifesti la presenza di qualcuno.

Volontà di un avvicinamento, di comunicazione interpersonale.

Gesti che infine si ripetono al contrario, tutto è di nuovo al proprio posto, nessun ospite questa sera.

 

12.

Percorsi di luce, Filippo Rossi, a cura di Claudio Strinati, Fondazione Ducci.

Strati, Frammenti, luce e infine silenzio, sono le parole che ritroviamo nei titoli delle opere di Filippo Rossi e che descrivono perfettamente la direzione verso cui l'artista orienta lo sguardo dell'osservatore. Placche materiche di polistilene sono composte e sfaldate fino a rendere le superfici sensibili al tatto, colori brillanti ed intensi tracciano segni indelebili. L'abbondante uso della foglia d'oro ricorda i fasti dell'arte bizantina, dove l'ideale della purezza manifesta la presenza di uno spazio contemplativo.

13.

Open studio, Tania Welz, Vicolo del Leopardo 23.

Tania Welz presenta i suoi lavori uno ad uno, come delle tappe di un lungo viaggio, forse quello che dalla Germania l'ha condotta quasi vent'anni fa in Italia. Sono dei tappeti, dove l'artista ha la possibilità di eseguire degli interventi a metà tra la scultura e la pittura, cucendo, scorticando, sovrapponendo tessuti che raccontano storie di vita comuni a ciascuno di noi, dove, riconoscendoci, troviamo una piccola parte della nostra storia. Una storia che non viene mai abbandonata, una storia che come memoria resta indelebile nei ricordi, una storia che come un tappeto può essere arrotolato e portato via in qualunque altra nuova destinazione.

14.

Bato-Mattia, RvB Arts. Fino al 12 novembre. 

Due visioni a confronto. Quella sintetica di Bato, popolata da segni ancestrali che richiamano pitture rupestri; e quella di Arianna Mattia, che evoca spazi interni, domestici, in cui prevale la figurazione. Da una parte scie isolate su grandi tele bianche, cariche di liquidità luminosa: onde sottili di un blu intenso e acquoso, schizzi sinuosi di bruno caldissimo. Dall'altra stanze e mobili, tratteggiati con una pennellata franta che sembra scomporre la meteria e lo spazio: poltrone fatte di densi tasselli come fossero cuciti, pavimenti levigati inondati di luce.

 

15.

Amo ergo sum, Fabio Masotti, Loft Gallery Spazio MatEr.

È un vero e proprio appartamento. Un salotto accogliente, comode sedute foderate, lampade a stelo dal design sobrio. Si può anche salire su un soppalco, tra pareti bianchissime e volte in pietra chiara, da cui si può dominare l'intera sala e sentirsi padroni di casa. Ma non ci sono quadri appesi, bensì cuori. La forma semplificata del cuore, con tutta la sua carica simbolica universale, si fa supporto per accogliere i materiali più diversi: lamine metalliche, bottoni, pezzi di vetro. Pezzetti di quotidiano amore, accostati con variegata creatività. Il paradigma cartesiano, che scinde anima, corpo e mente, trova così il suo ribaltamento. E il sentimento trionfa in un tripudio di fantasia.

 

16.

TimeLine Sketches, Lara Pacilio, studio dell'artista.

In un piccolo appartamento di uno stabile in Via del Porto Fluviale, incastrato tra casse di ortaggi e bancali da imballaggio, c'è un confessionale. In cui però non si chiede ammenda per le manchevolezze di un'esistenza peccaminosa. È vero, qui si viene per liberarsi di qualcosa, ma non c'è nessuna condanna. Al contrario, si ha la sensazione di essere accettati oltre che accolti. Ci si siede e si viene interpellati; quello che viene chiesto è, pretesa in realtà assai modesta, di raccontare gli sviluppi di una vita. Le parole, filtrate da una cortina nera, entrano così nello spazio creativo dell'artista, che le interiorizza e le condensa sulle pagine di un quaderno. Incontro di intimità. In un processo quasi maieutico la narrazione personale di qualcuno si trasforma nella coscienza dell'altro. E il tutto può alla fine essere sfogliato.

17.

Open studio di Alessandro Marchetti, Lanificio Officina

Il mondo di Alessandro Marchetti è fatto di legno, carta, fusaggine e simbologie autorappresentative.

Nei suoi simboli ricorrono spesso numeri, lune sorveglianti e elementi delle carte da gioco francesi. Le distrazioni, i contrasti e il sentimento sono all'origine di ogni suo lavoro, pittorico e scultoreo.

 

18.

Le immagini fluttuanti, Claudio Malacarne, Galleria Frammenti d'Arte.

Dal titolo potrebbe quasi sembrare una mostra di stampe giapponesi del periodo Edo. Guardando distrattamente le opere, invece, si potrebbe pensare di aver a che fare con i triti soggetti cari all'Impressionismo: figure di bagnanti che sguazzano beate. Ma, se ci si sofferma, s'intuisce immediatamente un'atmosfera diversa. La dimensione ludica, spensierata, si coniuga con una tecnica pittorica estremamente sapiente, fatta di larghe pennellate che danno l'idea di smuovere esse stesse le acque, determinando la fusione cromatica e luministica tra il corpo umano e l'elemento liquido.

 

19.

Colors. Omaggio al colore, Galleria Edieuropa. Fino al 14 gennaio.

Non per essere eccessivamente profani, ma, modificando l'adagio teologico, si potrebbe proprio dire che le vie del colore sono infinite. Ogni sperimentazione è infatti una strada da percorrere: a doppio senso o a senso unico, con svolte e innumerevoli diramazioni; talvolta interrotta da lavori in corso, altre dal muro di un vicolo cieco; biforcazioni e bivi, discese e salite tracciano sentieri sempre inediti. Il compito di mostrare questa spettacolare varietà è affidato ai lavori senza tempo di grandi maestri italiani, da Prampolini agli esponenti della Scuola di Piazza del Popolo, da Pascali a Turcato, da Afro e Carla Accardi fino alle più recenti generazioni di street artists. Opere che costituiscono un vero museo del colore, in cui si è rapiti dalle onde che compongono lo spettro elettromagnetico.

 

20.

Atonal, Collettivo ATONAL, Galleria Interzone

La mostra, la prima a livello mondiale del gruppo fondato nel 2014, riunisce le opere di fotografi di diversa provenienza (polacca, greca, svedese e finlandese), tutti già affermati in patria e a livello internazionale, in una sorta di melting pot dal notevole impatto visivo. I lavori degli artisti, ben 180, sono mescolati tra loro con l'intenzione di elidere le tradizionali cesure che tendono a isolare le singolarità stilistiche in categorizzazioni stagnanti. Viene in questo modo acuito il carattere corale e profondamente collaborativo del collettivo, che promuove il sostegno reciproco di ricerche individuali in cui il corpo assume un protagonismo conturbante. La carnalità di queste immagini, raccolte come in un diario visivo, costringe infatti lo sguardo ad arrendersi alla brutalità di un'anti-estetica ormai parte del nostro presente.

 

21.

Wood Veins, Veks Van Hillik, Nero Gallery.

Al confine tra un bestiario medievale e un campionario teratologico, le creature ideate dalla fervida immaginazione dell'artista francese popolano le pareti della galleria, un piccolo spazio reso surreale dalla presenza, un po' inquietante e un po' fiabesca, di questa progenie zoomorfa. Da un lato i disegni, strumento primario di esorcizzazione di pulsioni ossessive, in cui il segno della matita o dell'inchiostro, rifinito con tecnica esemplare, dà vita a un repertorio di esseri grotteschi che assumo i tratti dei personaggi di un racconto fantasmagorico. Dall'altro, su una parete nera come la pece, si stagliano dei ciocchi di legno dipinti, trofei ittici e ornitologici che potrebbero ornare l'abitazione di un mostruoso cacciatore. Anche se l'analogia più calzante sarebbe quella del banco di un macellaio. Gli animali, o almeno parti di essi o ciò che ne rimane, vengono smembrati e ricomposti come in un esperimento mengeleiano. Un sadismo tuttavia sublimato dall'accuratezza quasi affettuosa con cui il loro aspetto viene impresso sulle venature del supporto arboreo.

 

22.

Un intervallo tra due tempi, Galleria Minima.

Minima di nome e di fatto. Così come lo sarà questo commento. Una vetrina, uno stanzino, poco più. Ma dentro si fanno riferimenti a Shakespeare, che non è certo un emerito sconosciuto. Un pò sgomitando, cercando di farsi largo in uno spazio fin troppo raccolto, le opere (poche ma buone come si suol dire, e non potrebbe essere altrimenti) dialogano dando un senso alla ristrettezza dell'ambiente, che corrisponde a un'ampiezza di vedute sorprendentemente ampia.

 

23.

Non amo che le rose che non colsi, Richter Fine Art. Fino al 23 dicembre.

Il titolo è un verso di una poesia di Guido Gozzano. La nostalgia struggente, il senso di impotenza che comunicano queste parole vengono accolti dagli artisti che partecipano alla collettiva (la mostra inaugurale della giovane galleria) come un appello, un invito a incanalare, riattualizzandola, quell'inquietudine esistenziale spesso feconda che porta l'uomo, in tutta la sua parzialità e finitezza, a interrogarsi sulla propria esistenza. Tuttavia la caducità così evocata non si traduce in un recupero passatista di forme e iconografie tradizionali, ma al contrario diviene una spinta alla sperimentazione, il pretesto per rappresentazioni stranianti, al confine tra visione tragica e interpretazione ironica.

 

24.

Ri/Tratti, Bruno Aller, Honos Art. Fino al 26 novembre.

Ragionando sul termine Gesamtkunstwerk di wagneriana formulazione, concetto che rimanda una un'opera d'arte totale, a un'ideale sinestesia di forme e linguaggi, l'artista romano, formatosi come scenografo, propone in occasione di questa mostra la sua personale interpretazione di questa filosofia romantica. In un'epoca in cui la pittura sembra aver perduto la propria identità a causa di ibridazioni sempre più profonde, l'appello al ritorno a una più organica e armonica fusione, o quantomeno al richiamo, tra diverse modalità espressive non ha nulla di nostalgico o melodrammatico. Se l'opera d'arte, che altro non è se non un singola, e sempre irriducibile, manifestazione di una sensibilità particolare, è destinata a rinunciare alla sua natura universale, allora l'unica strada da seguire sarà quella di valorizzare l'intrinseca complessità, materiale e concettuale, che è propria di ogni estetica.

 

25.

White Noise Gallery, presenta Illusioni Ottiche, doppia personale dei giovani artisti Diegokoi e Juan Eugenio Ochoa

Dall'iperrealismo di uno all'evanescenza dell'altro, entrambi indagano il corpo e le sue espressioni in modo diametricalmente opposto. Le opere di Diegokoi sfiorano la realtà, il taglio fotografico sfuggente ne esalta il talento mimetico, i tratti incisivi della matita sono percepibili appena. Di tutt'altro tipo sono i ritratti di Ochoa, che dipingendo in negativo crea un effetto straniante; l'esperienza del nostro vissuto stratificato si presenta in modo irriconoscibile. Siamo portati a pensare che siano spettri, o forse ció che resta di noi. Dal particolare studiato fino al dettaglio alle immagini sospese entrambi gli artisti ci portano a rivedere noi stessi. Da dentro.

 

26.

In questo momento, Corrado Ricci, Tricromia Artgallery.

Biografia, cronaca e racconto s'intrecciano. Le pareti sono tappezzate da tasselli di carta dipinta, come un patchwork. Il colore prevalente è il nero, che richiama l'inchiostro della carta stampata e dei caratteri tipografici, delle pagine su cui si scrivono gli episodi di una vita intera; i fotogrammi di un vecchio film. Le opere sono il frutto delle esperienze più intime e private dell'artista, che le traspone su carta per fissarle, per strapparle dal flusso implacabile dei ricordi e delle emozioni. Le diverse serie di lavori in mostra sono una riflessione, mai completamente metabolizzata, dei temi che hanno segnato la sua vita personale e la sua carriera artistica: il rapporto con la madre, la condizione dei migranti, l'interesse per il trattamento delle malattie mentali. E non manca la fiaba, colorato inserto di compassionevole dolcezza. La storia di un orso ferito in fuga riesce a commuovere con la stessa intensità di un momento di sofferenza umana.

27.

In Vitro, Franco Losvizzero, Canova 22

Tra le suggestive volte in mattoni della fornace in cui il celebre scultore Antonio Canova cuoceva i suoi modelli, delle teste in vetro soffiato cromato a specchio, riempiono l'aria, un tempo rovente. Le si ritrova affisse alle pareti o, in gran numero, pendenti dal soffitto del vano centrale. Deformi, mostruose, di una lucentezza stridente e innaturale. Queste enigmatiche effigi si diffondono nell'ambiente come ospiti parassitari, concrezioni solo in apparenza amorfe. Alcuni tratti mantengono infatti una parvenza di riconoscibilità, ma sono fisionomie che si attribuirebbero, tutt'al più, ai demoni di un inconscio disturbato o ai mercenari di un'orda terrifica. Fattore ancora più disturbante, la loro brillantezza, simile a quella del mercurio o di un metallo prezioso, conferisce loro un'aura mistica, pervasa di un certo esoterismo, come se fossero i risultati segreti di un esperimento alchemico proibito.

 

28.

Puó davvero la ragione indicarci sempre la strada giusta da seguire? Il giusto modo di vedere il mondo? La mostra Aporia, allestita presso Studio 123 ci propone un'alternativa. 

 La differenza stilistica degli artisti presentati in mostra crea un cortocircuito sensoriale e percettivo che impedisce di ragionare in base a un comun denominatore, ma permette invece di indagare i lavori in rapporto con l'ambiente, con il cosmo che ci circonda. Le dicotomie sono molte ma vengono spazzate via dal serrato dialogo tra le opere, così diverse ma così vicine. Le opere socialiste di Leonardo Crudi (Schiavi e lavoratori) parlano con le dirimpettaie opere di Pietro Pasolini (Mare dentro), mentre le opere di Gaia Di Lorenzo sono sparse nella sede espositiva; tutto sembra cozzare, ma gli artisti presentati ci offrono con media diversi modi originali di vedere il mondo. Il loro e il nostro. 

In mostra sono presenti anche le opere di Lucrezia De Fazio, Costanza Chia, Eleanor Begley, Rene Wagner, Carlotta Roma e GB Group.

29.

La Galleria Valentina Bonomo ospita la mostra personale della giovane artista romana Caterina Silva, dal titolo Münster. L’artista riflette sull’impossibilità di reazione, la disperazione e il conflitto interiore che si verificano nei casi in cui viene esercitato un potere forzato contro la libertà e la dignità personali. Sentimenti repressi che però, una volta giunti a maturazione, sono pronti a esplodere senza controllo, in una ribellione esasperata.

30.

“Specchio delle mie brame” recita la fiaba. La risposta dello specchio è concepita per essere sempre la stessa e dare così a chi la cerca rassicuranti certezze. Fino al giorno in cui sulla superficie prima immacolata dello specchio compare una macchia. Il vetro si appanna, una piccola crepa incrina la sua perfetta planaria.

Melati Suryodarmo, in occasione della sua prima personale in Italia, presenta presso la galleria Il Ponte alcuni scatti della serie Acts of Indecency. Anche l’artista indonesiana interroga degli specchi, i filtri attraverso cui la società contemporanea stabilisce e impone determinati canoni estetici per irradiarli in riflessi impossibili. Senza indulgenze cosmetiche mette in mostra il suo corpo, di certo non conforme ai modelli imperanti ma comunque autentico, solo per deformarlo e distorcerne ironicamente l’aspetto. Pose sgraziate, gonne di tulle stazzonate e scarpe col tacco indossate con approssimazione. Le calze a rete e le collant, vessillo di erotiche aspirazioni, vengono riempite con palline e chiodi; le gambe diventano così i tentacoli di un polipo o le irsute zampe di un licantropo. Dov’è l’indecenza? L’oscenità è ciò che lega arroganza e ingenuità.

The Space In Between

10/10/2016

di Giulia Pollicita

Dal 3 al 5 ottobre nelle sale di molti cinema è stato proiettato The space in between: Marina Abramović and Brazil, regia di Marco Del Fiol, il film documentario che racconta l'esperienza spirituale della grandmother of performing arts, ossia dell'artista Marina Abramović, attraverso una terra suggestiva ed esotica come il Brasile.

 

Per i più scettici, forse sarebbe meglio stare alla larga da questa pellicola. 

 

Ma del resto non ci si poteva non aspettare qualcosa di per lo meno destabilizzante da parte della Abramović, e il fatto che molti abbiano borbottato il proprio disappunto con fermezza vuole dire soltanto che ancora una volta questa eccentrica performer abbia fatto centro e sia riuscita nel suo intento.

 

Sebbene ogni opinione sia rispettabile e il materiale della pellicola certamente opinabile (specie per quanto riguarda le parti più scenografiche, con scene a rallenty e musica drammatica di sottofondo, insomma le più artificiose e meno documentarie), è necessario liberarsi dal difetto di una miopia polemica che rischia di non mettere a fuoco il cuore della riflessione espressa attraverso il film dalla performer artist e prima ancora dalla donna stessa.

 

Donna la quale ci comunica di aver colto e accolto in sé, devotamente, tutta la profondità del ruolo sociale di artista, che efficacemente sintonizza ai tempi moderni e alle esigenze dell'uomo moderno. Uomo, che viene considerato alla luce del suo endemico bisogno di ritrovare un ubi consistam spirituale. Con chi, con che cosa, non importa. Bisognoso di ritornare a sé, di sentirsi e ritrovarsi nuovamente, al di là delle abitudini e della grigia indolenza del giorno d’oggi.

 

E qui sta probabilmente quel quid che sfugge a chi ha visto succedersi solo una sfilza di santoni praticanti esoterismo e medicina alternativa, insieme a schiere di invasati trascinati dal demone di rituali dionisiaci d'oltreoceano. Finendo inevitabilmente per scambiare il tutto per una grossa (“l'ennesima” ho sentito dire) eccentricità di Marina e una gigantesca trovata pubblicitaria per balordi inganna-persone.

 

Quello che affascina e dovrebbe farci riflettere più di ogni altra cosa non è John of God che ha preso troppo sul serio la sequenza iniziale di Un chien andalus, ma bensì la perseveranza e fiducia autentica con cui questa donna titanica affronta lo sforzo di ritrovare la divina semplicità della fede, del credere ingenuamente liberandosi da pregiudizi e sovrastrutture.

 

Non si tratta di un narcisistico tentativo di proselitismo verso dottrine new age, bensì di un parlare metaforicamente del proprio mestiere, raccontando, se vogliamo, l'ideale stesso dell'arte contemporanea e in particolare delle performing arts.

 

Marina si sottopone così a una serie di cerimonie e guarigioni spirituali, spaziando attraverso gli scenari incontaminati del pais tropical, da Abadiania a Bahia. Esplorando la mente e le sue suggestioni, la preghiera, i mantra e la danza collettiva, regala agli spettatori la visione di esperienze mistiche mescolate in un calderone di usanze e tradizioni latino-africane, in un percorso di rigenerazione che culmina con un pianto liberatorio dell’artista, immersa nella natura Amazzonica completamente nuda. Un ritorno vero e proprio alle origini, alle radici terrestri dell'uomo. Alla madre terra dispensatrice di energia positiva.

 

Questa volta Marina è dunque dalla parte del pubblico, partecipa a rituali magici e divini, è il pubblico ideale che sta dall'altra parte, che assiste e prende parte al rito. E lo vive genuinamente dimenticandosi di quella dose di finzione che inevitabilmente si cela nell'arte dello stupire, per poterne cogliere tutto il potere taumaturgico di catarsi, con una dose di ammirevole naivetè fanciullesca che è davvero la cifra che da sempre la caratterizza.

 

Così facendo Marina Abramović non parla solamente ad un pubblico ideale o futuro, del resto siamo al cinema, l'artista è presente, si sta esibendo e noi siamo il suo pubblico: si crea così un cortocircuito meta-cinematografico e meta-poetico per il quale la riflessione si amplia ulteriormente e i ruoli tornano al loro posto. Il film termina, in ring composition, proprio dove era cominciato.

 

L'artista è di nuovo artista, senza casa e totalmente “vuota”. Tale per essere riempita dal divino spiritualmente, e non religiosamente (quindi quasi forzatamente), manifesto solo e unicamente in quello space in between tra finzione e realtà, tra artista e pubblico, e nello spazio della loro interazione.

MAS: Funeral Party

27/09/2016

di Sara Fiorelli

Quando scendevo dal tram in Piazzale Appio mi fermavo sempre a vedere le locandine dei film affisse davanti al cinema Massimo. Avrei dato qualsiasi cosa per poterne guardare anche solo una piccola parte, vedere tutti quei meravigliosi vestiti che indossavano le bellissime attrici americane dalla pelle bianca e le labbra di corallo. Con il viso coperto da un velo d'imbarazzo, mi fermavo di fronte l'entrata e sorridevo al ragazzo della biglietteria, che con un tic nervoso si passava la mano sui capelli lucidi di brillantina. Aveva preso impiego lì da poco tempo, al suo posto prima c'era la vecchia titolare, che quando mi vedeva con gli abiti di seconda mano passati a me da mia sorella maggiore, mi gridava: «Regazzì nun è aria, se nun c'hai nemmeno du spicci pe compratte ‘na giacca della misura tua, nu’mme venì a dì che c'hai li sordi per bijetto. Qui nun se fa l'elemosina a nessuno!». Rossa di rabbia e con le parole che mi si strozzavano in gola mi voltavo e scappavo via correndo. Ma anche l'erba cattiva prima o poi muore, e così arrivò Romeo, questo era il nome del ragazzo che un giorno sarebbe diventato mio marito. Mi faceva entrare di nascosto a film iniziato, ed io rimanevo nel buio dell'angolo in fondo alla sala, con indosso un abito da lavoro nero comperato ai MAS in Piazza Vittorio. Da MAS andavo con mia madre; ci piaceva guardare le vetrine e da quando i prezzi si erano fatti convenienti potevo finalmente permettermi di prendere delle giacche della mia misura. MAS sì che vestiva tutta Roma, altro che lo slogan di Zingone. Quando nella sala si accendevano le luci per l'intervallo, fingendomi l'addetta alle pulizie, con ramazza e paletta in mano, raccoglievo le cicche sparse sul pavimento. È stato così che piano piano il cinema è diventata tutta la mia vita. Iniziai a lavorare facendo piccoli lavori di sartoria presso quelli che un tempo erano i Magazzini Roma, e diventai poi una costumista per alcune aziende cinematografiche. MAS fu per anni la mia seconda casa.

 

Quando scendevo dall'autobus in piazza dei Cinquecento avevo la fortuna di non incontrare mia zia tra i passeggeri, altrimenti sarei dovuta filare dritta a scuola. Confondendomi tra i viaggiatori in partenza e i pendolari che tutte le mattine affollavano la stazione Termini, mi dirigevo giù verso via Cavour, dove da lontano lo vedevo aspettarmi seduto sul motorino con gli auricolari e il lettore cd in mano. Avevo addosso un'agitazione che non capivo. Il cuore traditore mi pompava il sangue tutto in faccia facendomi brillare come un tizzone incandescente. Era la prima volta che un estraneo aveva il potere di influenzare i miei già labili cambiamenti umorali. Lo conoscevo da poco, dall'ultima sera passata al campeggio estivo. La tempestività non è mai stata una caratteristica della nostra generazione pre-digitale. Nelle nostre fughe ci rifugiavamo a piazza Vittorio, vagabondando sotto i portici come nomadi anonimi, certi che mai nessuno ci avrebbe trovati. In quegli anni, infatti, il quartiere Esquilino era stato ribattezzato China Town, per via di tutti i cinesi che vi avevano preso residenza e per tutti i negozi di abbigliamento cinese che tutti additavano come la causa della crisi dei commercianti italiani. Da quando poi c'era stata la sars, l’influenza aviaria, al massimo Piazza Vittorio la si attraversava a bordo della metropolitana. MAS era uno dei pochi negozi che aveva resistito ai cambiamenti di una città in evoluzione, era diventato una sorta di bazar in cui potevi trovare qualsiasi cosa. Era un carnevale di possibilità. Noi andavamo nel reparto dove si trovavano gli abiti vintage, che allora si chiamavano rimediati. Ne sceglievamo di improbabili e poi salivamo verso i camerini per mascherarci. Lo spazio era così angusto che era impossibile non sfiorarsi. Tra pantaloni di flanella e tute acetate non restavano altro che lividi e baci in apnea, gambe, glutei e spalle legati in una morsa senza scampo.

 

La chiusura di MAS, annunciata già da diversi anni e che nel 2014 aveva trovato voce nel del docu-film The Show Mas go on di Rä di Martino, si fa ora imminente.

 

Il collettivo artisti§innocenti, in collaborazione con Anna Cestelli Guidi, Direzione Annunci e Confezioni; Helia Hamedani, Responsabile Correlazione Ludica; Roberta Melasecca, Caposezione Volantinaggio Mediatico; Giorgio de Finis, Immagazzinamento e Rendicontazione Immagini Evento; Calro De Meo, Cartellonista Elettronico e con il Gentile Patrocinio di MAS, si è fatto così promotore di tre iniziative tese a rendere omaggio al tempio dell'abbigliamento popolare romano.

 

Il primo evento della trilogia si è svolto il 10 agosto scorso con il titolo Camerini/Cambi D'Artista, dove gli artisti partecipanti, o meglio, gli artisti vetrinisti, sono stati chiamati ad occupare le vetrine che si affacciano lungo via dello Statuto che, come dei camerini con vista sulla città, sono stati  trasformati in palcoscenici da abitare. Le installazioni sono state poi rinnovate in occasione della secondo appuntamento dell'11 settembre dal titolo Camerini/Cambi di Stagione, durante il quale è stato consegnato ai passanti un volantino di invito a Fuori Tutto/Campionario Estemporaneo d'Arte, un happening che si sarebbe svolto la domenica seguente (il 18 settembre) dalle ore 10.00 fino alle 20.00 (orario di chiusura dei Magazzini MAS) presso il primo e il secondo piano dell'edificio, che avrebbero riaperto al pubblico proprio per quell'occasione. 

 

C'è chi lo ha definito un funerale divertente. Per l'happening gli artisti sono stati chiamati ad occupare una porzione qualsiasi di spazio dell'edificio: camerini, pavimenti, soffitti, scale e finestre. Non ancora affisse alle pareti, ma poggiate al pavimento, come per sottolineare la chiusura imminente, sono le lapidi in marmo nero di Iginio De Luca, che recitano nell'epitaffio d'orato gli slogan di offerte che ricordano i vecchi fasti dei grandi magazzini. Myriam Leplante, oltre a presentare Principe, l'opera in vetrina in cui l'incombente presagio della morte è sottolineato dal corvo nero, è stata anche l'ideatrice di una performance durante la quale, gli artisti presenti, con il volto coperto da una maschera, hanno sfilato portando in mano alcune delle opere in mostra seguendo una cadenza ritmata del passo che evocava la solennità di una liturgica processione di commiato. Guendalina Salini con The End celebra la “fine” attraverso uno spaesamento che induce a cambiare il proprio orientamento d'animo. Gli angusti camerini sono occupati da Ali Assaf  e Pasquale Polidori, mentre Daniele Villa con il suo tavolo pieno di oggetti disparati disposti paratatticamente e Marco Bernardi con Copia Pietra raccolta per caso in un momento qualsiasi, sembrano celebrare il gozzoviglio degli abiti tutti uguali tra loro, ancora per poco in vendita presso MAS. 

 

Il secondo piano è interamente occupato da NON CONFERENCE 3/Phantasmata di Simone Bertugno. Si tratta di una nuova edizione della performace presentata per la prima volta durante Jump into the Unknown, un evento collaterale della cinquantaseiesima Biennale di Venezia. Per accedere all'ingresso del piano superiore si deve salire una scala mobile ferma; l'inciampo è automatico. L'intero piano è al buio, la luce dell'esterno filtra dalle vetrate completamente istoriate, che presentano la ripetizione dell'icona di un primate connotata da differenti attributi. Il percorso è scandito da un beat elettronico che conduce presso otto lightbox sonore che, accendendosi ad intervalli, mostrano il nome del personaggio che di volta in volta prende parola durante la NON CONFERENCE. Diversi sono i partecipanti: Jung, Schwitters, Angela Davis, Trotsky, Burroughs, Bourgeius, Le Courbousier che, come degli spettri pervasi da un'aura mistica, prendono parola in questa cattedrale, sottolineano il depauperamento a cui sta andando incontro il nostro periodo storico, che pare aver perso interesse verso uno stile di vita etico e un modello diverso a quello idolatrico del capitale e del consumismo.

 

È qui che ho conosciuto Elvira, Romeo non c'è, è morto qualche anno fa. È venuta anche lei a dare  il suo ultimo saluto, a vedere per l'ultima volta quell'edificio in cui il tempo sembra essersi arrestato, per un attimo, in un limbo senza appello. 

 

Con la fiducia che questa iniziativa promossa da artisti§innocenti possa contribuire a coltivare l'idea di offrire i luoghi storici della città caduti un po' nel dimenticatoio ad iniziative ed attività culturali aventi come interesse principale la  valorizzazione sociale del presente, spero che sia lasciata a MAS la possibilità di rinnovarsi attraverso il cambiamento e non tramite manovre di appalti che, come sempre, stravolgono i luoghi trasformandoli in non-luoghi per la città. 

 

Ora lavoro part-time presso una famosa catena di abbigliamento low cost in un grande centro commerciale in periferia, l'unico punto di ritrovo senza ossigeno per tutti i giovani del circondario. Il colmo è che adesso, nei camerini, ci si entra solo uno alla volta.

La lenta morte di Medusa

14/05/2016

di Edoardo Maggi

L’ennesima stoccata è giunta. La terribile creatura, simbolo di inerzia e sinonimo di inibizione, riceve, ancora una volta, un colpo mortale. Mentre il suo corpo mostruoso è scosso dalle convulsioni, dalla ferita infertale non sgorga sangue, ma rinasce la Vita. Medusa, con tutto ciò che rappresenta, è morta. Il suo potere mortifero è svanito e il suo temibile sguardo non ha su di noi più alcun effetto.

 

Il responsabile di questa vittoria però non è un solitario Perseo errante, ma un virtuoso collettivo aggregatosi appositamente per l’elaborazione di una manifestazione culturale diffusa. In occasione del Giubileo della Misericordia la Facoltà di Ingegneria dell’Università di Roma “La Sapienza” e LAB2.0, sotto la direzione scientifica e artistica di Marco Ferrero e Lorenzo Carrino, affiancati da un team di giovani curatori, propongono una serie di eventi che mettono in campo una pluralità di voci perfettamente orchestrata capace di configurarsi come un elogio, tutt’altro che funebre, all’importanza e alla ricchezza di un prodotto naturale che è stato (ed è tuttora) parte integrante della tradizione artistica del nostro Paese e, grazie al profondo legame con la sua Storia, della nostra identità culturale.

 

Pensato come una sorta di narrazione corale, Stonetale è un racconto in più tappe che trova nella pietra il suo tema comune e la sua forza coesiva. Il materiale lapideo si riappropria, grazie a questa serie di mostre che hanno lo scopo di indagare i suoi rapporti con la creatività umana, della sua componente più vera ed essenziale, troppo spesso taciuta, soppressa o adombrata da utilizzi utilitaristici e sterili tecnicismi. Tale riacquisita libertà viene efficacemente espressa e riaffermata attraverso una struttura espositiva di carattere polifonico che si compone di diverse tematiche e location, ognuna delle quali è stata scelta per valorizzare al meglio le caratteristiche, sia intrinseche che estrinseche, dell’elemento petrino e mostrare le sue possibili declinazioni nei diversi campi dell’attività produttiva.

 

Nelle suggestive cornici di tre delle più importanti Basiliche romane, Stonetale rimarca i significati, simbolico-funzionali e storico-antropologici, di cui la pietra viene da sempre investita, orientandoli però in senso decisamente più moderno e attuale, verso una poetica ricognizione delle peculiarità che sono alla base di procedimenti creativi sempre più consapevoli dei retaggi e delle implicazioni che la sfera del litico, nella sua terrena immanenza, sottende, costantemente in dialogo con il sacro e il trascendente. Il percorso così tracciato tocca dimensioni e ambiti che comprendono un’ampia gamma di sperimentazioni e ne sottolineano il rapporto fecondo con l’immateriale: nel quadriportico di San Clemente viene messo in scena il binomio Origine/Architettura, nel deambulatorio di Santo Stefano Rotondo al Celio trova spazio la correlazione tra Rito e Design, mentre la cripta dei Santi XII Apostoli è teatro del connubio Memoria-Arte.

 

Nella sezione intitolata Origine la pietra come topos archetipico e ancestrale, elemento universale e sempiterno, nonché fondamento dell’oikos nel quale la famiglia nasce e si riunisce, diventa materia prima di nuove pratiche del costruire che riflettono non tanto sul suo ruolo di fondamento stabile e potenzialmente immutabile – il riferimenti più antichi e duraturi a quest’idea sono senza dubbio i passi evangelici che stabilisco un’inscindibile correlazione tra le proprietà fisiche della roccia e le simbologie da esse derivate – quanto piuttosto sui valori estetici delle superfici, che da semplici schermi duri e solidi possono trasformarsi, eludendo i vincoli strutturali, in materia plastica e palpitante capace di espandersi verso l’esterno, verso lo spazio della vita, protendendosi in evoluzioni spaziali e sfaccettandosi in modulazioni luministico-atmosferiche.

 

In Riti l’oggetto litico in quanto fulcro di una gestualità arcaica, magico menhir e omphalos dal potere coercitivo, oltre che centro ideale attorno al quale si raduna la comunità e totem attraverso cui essa si identifica, diventa, grazie alla sua capacità di farsi simbolo pregnante nonostante la sua ricercata semplicità formale, strumento rifunzionalizzato assunto come tramite per confermare quell’esigenza connaturata all’uomo di aggregarsi nella penombra di atmosfere rassicuranti generate da momenti conviviali in cui non sono solo i beni materiali o di consumo a essere messi in condivisione, ma la stessa fibra spirituale che costituisce la trama di ogni pensiero o azione volte ad attestare una presenza “altra” mediante un investimento affettivo compiuto da una collettività agente e canalizzato da rituali di attivazione.

 

In Memorie l’opera scultorea come emblema della capacità dell’ homo faber di plasmare e cristallizzare la realtà che lo circonda per crearne rappresentazioni oggettive, monolite antropomorfizzato oggetto di venerazione e sema immutabile attraverso cui comunicare gli ideali e i valori di un popolo, rinnova, in virtù della sua resistenza al tempo, il suo ruolo di monito alla posterità e di monumento all’eternità; sinonimo di autorità e durevolezza, la statua mantiene la sua aura di impenetrabile potenza, ma, non più semplicemente “stante”, si muove secondo direzioni sorprendenti animandosi dall’interno, quasi fosse dotata di una personalità – una memoria individuale ad essa costitutiva e da essa ineliminabile – che l’atto di rimozione meccanica, necessario surrogato servile di un atto di fede, ha il dovere di far emergere per permettere la piena emersione delle specifiche qualità vitali di una materia altrimenti inerte.

 

Le cortine murarie in travertino progettate da vari studi di architettura, metafore di corpi giacenti (con cui condividono anche le misure), sovvertono la consistenza tettonica facendosi sublimazioni di forme organiche; gli oggetti ideati dal collettivo Recycled Stones e Peppino Lopez, paramenti pseudo-chiesastici ricavati da scarti di lavorazione, si allontanano dagli esclusivi spazi della mensa per entrare nel quotidiano; le sculture di Jacopo Cardillo (in arte Jago) realizzate prevalentemente con sassi di fiume, poemi della trasformazione alchemica, riescono ad abbandonare il loro involucro compatto e abbracciare la morbidezza della carne.

 

Ognuna di queste creazioni è un inno alla Vita ritrovata, infusa, quasi demiurgicamente, da una volontà senziente alla materialità dormiente, latente ma non per questo morta. La pietra dunque, risvegliata e parlante, ci racconta la sua storia. La pietrificazione non è più la conseguenza di un'inibizione, l’unico atteggiamento possibile di fronte all’intimidazione; non sancisce un atto di morte, bensì diventa un moto emancipatorio (una pietrific-azione se si vuole giocare con i termini) che segna l'inversione da uno stato di solidità inerme a quello, ben più nobile e sincero, di eterea universalità.

 

Perché Medusa è morta. E non ci fa più paura.

 

 

ORIGINE

Mostra di Architettura

a cura di Luca Porqueddu

20 aprile - 22 maggio 2016

Quadriportico Basilica di San Clemente _ Piazza di San Clemente

Orari_ 9.00 - 12.30 e 15.00 - 18.00

 

RITI

Mostra di Design

a cura di Maria Teresa Della Fera

21 aprile - 22 maggio 2016

Basilica di Santo Stefano Rotondo al Celio_ Via di Santo Stefano Rotondo, 7

Orari_ 10.00 -13.00 e 14.00 -18.00

 

MEMORIE | JAGO

Mostra di arte

a cura di Tommaso Zijno

22 aprile - 22 maggio 2016

Cripta Basilica dei Santi XII Apostoli _ Piazza dei Santi Apostoli, 51

Orari_ 9.00 – 12.00 e 16.00 – 19.00

 

www.stonetales.it

Segui una linea. Intreccia un filo. E ricorda

18/01/2016

di Giulia Di Fazio

 

Il percorso di cui voglio parlare si snoda tra due sedi espositive, Venezia e Roma; si svolge comprendendo un arco cronologico di otto mesi e tuttavia trattiene in sé qualcosa di meta-temporale e meta-spaziale che racchiude il tempo e lo spazio dilatati delle memoria soggettiva e oggettiva.

 

Rappresentante del Giappone alla 56° Biennale di Venezia, l’artista Chiharu Shiota ha realizzato l’opera dal titolo The key in the Hand, con la quale ha voluto far immergere il visitatore nell’atmosfera sospesa della memoria. La spettacolare istallazione dalle dimensioni di un’intera stanza, quindi quasi un’opera site-specific, era formata dall’intreccio di milioni di chiavi appese a fili rossi, così aggrovigliati da far perdere la direzione del percorso di ognuno, per confluire tutti in due barche di legno, installate in modo da ricordare delle mani giunte in segno di offerta.

 

Il colore così acceso si irradiava per tutta la stanza, creando la sensazione di una nube rossa capace di coinvolgere i riguardanti, attraendoli, come se possedesse una forza centripeta, all’istallazione: si innescava in questo modo il desiderio di entrare in quei grovigli, rendendosi conto, solo dopo esser arrivati ad una distanza ravvicinata, che era una qualcosa di impossibile da attuare. Il moto di avvicinamento svelava, come una scoperta, la bellezza di oggetti tanto comuni come le chiavi, corrose e rese uniche dal tempo, dalla memoria depositata sui materiali attraverso l’azione dell’usura e degli agenti atmosferici.

 

Il medesimo filo rosso l’ho rincontrato presso l’Istituto Giapponese di Cultura di Roma, ad avvolgere un’istallazione dalla forma di casa stilizzata, che a sua volta ingloba un pilastro dell’istituto, simbolo di una cultura tanto radicata nella vita dell’artista e quindi parte fondamentale del proprio ambiente casalingo e familiare.

 

Tornano alla mente tutte quelle chiavi e si affaccia un pensiero improbabile:  forse una di quelle avrebbe potuto aprire la casa che ora ho davanti a me. Ma non è possibile, non ci sono serrature, solo grovigli che osservo cercando di trovare in tutti i modi il percorso di ogni filo. Il mio occhio non lo può decifrare: risulta un’operazione impossibile perché ognuno di essi si lega a tutti gli innumerevoli altri. Allora si potrebbe attraversare con una mano (penso), ma si rimarrebbe impigliati, si profanerebbe qualcosa che risulta sacro e, allora, si può solo guardare uscendone arricchiti, pensare che la nostra storia si può mescolare a quella di milioni di persone e diventare una memoria universale.

 

In questa mostra, dal titolo Follow the Line, c’è anche un altro filo, di colore nero, intrecciato intorno a strutture cubiche di piccole dimensioni, dal sapore più malinconico, in cui sono inglobati e sospesi oggetti di vita quotidiana: delle scarpette da bambino, quelle che un genitore di solito conserva, anche quando i propri figli sono ormai adulti; una spazzola per capelli, di quelle che è possibile trovare nei cassetti di una nonna  e che ci fanno sorridere ripensando alla sua giovinezza dai lunghi capelli non ancora diventati bianchi.

 

Una memoria testimoniata da foto di precedenti lavori e performance, da schizzi preparatori per la realizzazione dell’opera esposta alla Biennale, da un video che ne riproduce i momenti della costruzione e ancora un altro video già lì esposto e qui riproposto, in cui viene chiesto a dei bambini cosa ricordano della loro esistenza prima della nascita, nel ventre materno e ancora prima nello spazio metafisico antecedente il concepimento. La scienza dice che non possiamo ricordare tali sensazioni e allora (pensiamo noi) questi bambini stanno inventando, fantasticano. O chissà, forse ne sanno davvero di più, quando ancora la ragione non ci imprigiona in convinzioni date.

 

Cosa c’è prima e cosa c’è dopo? C’è una storia lunga più di noi, lunga più di qualsiasi essere vivente e qualsiasi cosa non vivente, più antica e più longeva del mondo, una memoria che immagino aleggiare per l’universo, infinita e così impalpabile da poter essere percepita solo col cuore.

 

 

Istituto Giapponese di Cultura [Roma, Via Antonio Gramsci 4]

jfroma.it

 

Follow the Line
CHIHARU SHIOTA
30 ottobre 2015 – 23 gennaio 2016

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