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Fotografare l'essenza

Si alza il sipario.

Siamo al primo atto della Trilogia del silenzio, in scena presso la White Noise Gallery. Fast Forward di Jason Shulman ci introduce all’osservazione del tempo cinematografico, dilatato e condensato in un unico scatto fotografico. L’esposizione ripetuta e continua di un otturatore lasciato aperto di fronte a uno schermo su cui viene proiettato un intero film, restituisce sul piano bidimensionale la sintesi di immagini che normalmente scorrono veloci e che quindi non sono del tutto afferrabili.

L’esperienza quadridimensionale, ottica, sonora e cognitiva di frame cinematografici, viene trasposta in un unico fotogramma capace di catturare i fasci di luce generati da ogni scena, e di restituire lo sfondo (ciò che soggiace) di un’intera storia.

Un lavoro lento e paziente volto a riunire il tempo che scorre. Troppo lampanti e fulminee appaiono le scene di un film perché l'umana capacità ottica possa comprenderne appieno ogni particolare, propriamente statica è invece l'immagine impressa nella mente di chi guarda una fotografia.

Jason Shulman, La vita è bella (1999), 2016. Courtesy of the Gallery

Fenomenologicamente distanti, le arti sorelle della fotografia e del cinema qui si sintetizzano regalandoci l'essenza di un’esperienza ormai del tutto estetica. Le opere qui esposte sono il risultato di un connubio incastratosi alla perfezione: il risultato è dato inevitabilmente dall’uso magistrale di entrambi i mezzi, nonché dallo stile personale dell’artista-regista e dell’artista-fotografo.

In questo esperimento visuale la narrazione sparisce; la trama, ingombro al godimento puramente estetico delle immagini singole, lascia spazio ai colori e alle scenografie che come spettri sottostanno a tutto lo svolgimento del film. Dove sono i personaggi (di cui talvolta il profilo fantasmagorico persiste), i dialoghi, il filo logico che costituisce la storia, i suoni e la colonna sonora? Tutto questo è sparito: le immagini sono silenziose e desolate, ma mai mute o svuotate. Sono immagini dense, cariche di quella stessa sostanza che ha caratterizzato l’intero film, una cristallizzazione puramente ottica che materializza scene condensate nell’inconscio.

Così, come un déjà-vu, l’osservazione istantanea di queste scene genera un disorientamento nel riguardante: l’impressione è di essere già stati in quel luogo, che, non restituito nitidamente, appare vago come un ricordo. Ma i ricordi sono esattamente così: sintetizzati in poche immagini in cui i colori si fondono, e di cui gli stessi suoni e sensazioni sono parte integrante. Chiudendo gli occhi, subito dopo aver osservato le fotografie di Shulman, ci accorgiamo che è proprio in quel modo che ricordiamo quel film visto anni prima. Il silenzio e la desolazione ecco che si caricano di tutte le altre esperienze multisensoriali vissute nella nostra mente, grazie a un ricordo riportato in vita.

Jason Shulman, La grande bellezza (2013), 2016. Courtesy of the Gallery

Cala il sipario.

Ricordo ancora lo stabile sfarzoso a sfondo delle drammatiche scene in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pasolini; mi riappaiono i toni, a tratti cupi a tratti brillanti, di una tavolozza giocata tra i verdi accesi e i viola purpurei dei film di Dario Argento, rivivo la tensione di Suspiria (1977); sento la tristezza del grigio cenere tinto di una rosea dolcezza nella Vita è bella (1999) di Benigni. Anche se la sagoma del piccolo protagonista è assente agli occhi, ripercorro la sua corsa tra i vicoli sfumati; riesco a vedere la luce aranciata di Roma, il profilo della sua inconfondibile architettura storica ripresa nella Grande bellezza (2013) di Sorrentino, ne odo, seppur flebilissimi, i suoni.

White Noise Gallery [Roma, Via dei Marsi 20/22]

whitenoisegallery.it

Fast Forward

JASON SHULMAN

A cura di Eleonora Aloise e Carlo Maria Lolli Ghetti

28 gennaio 2017 - 25 marzo 2017

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