I misfatti dell'Antropocene
Fanerozoico. Cenozoico. Quaternario. Olocene. No, non sono parole messe a caso, esperimenti lessicali privi di senso. E non sono nemmeno neologismi o fantasiose “parole mecedonia”. Forse permetterebbero di ottenere un punteggio stellare a Scarabeo, o in un gioco a quiz per menti eccelse. Sveliamo allora il segreto. Quelle elencate sono, rispettivamente: un eone, un’era, un periodo e un’epoca. Sono tempi geologici, raggruppamenti cronologici in uso nei sistemi di datazione dell’età della Terra. Vanno dall’unità di tempo più grande (l’eone), che consiste in un periodo di, approssimativamente, miliardi di anni, alla più piccola (l’epoca), la cui durata è calcolabile, sempre in via del tutto empirica, in milioni di anni. In realtà le epoche sono ulteriormente suddivise in età, ma non è il caso di complicare la faccenda.
Insomma tutto questo per dire che attualmente viviamo nell’epoca chiamata Olocene (“tutto nuovo”, secondo l’etimologia), iniziata poco meno di 12.000 anni fa. La storia della civiltà umana, affermano i paleo-qualcosa-logi, si inserisce interamente in questo intervallo. Siamo ben poca cosa in confronto alla vastità di ciò che ci ha preceduto. Ma questo lo sappiamo (forse) ed è inutile far riaffiorare vecchi complessi d’inferiorità che si credevano sepolti.
Marco Giordano, asnatureintended, 2016. Installazione view. Courtesy of Frutta Gallery
Dunque?, si potrebbe pensare. Non sarà certo questa piccola nozione, relegata, nel migliore dei casi, a mera curiosità a salvare il mondo da una catastrofe nucleare (scenario poi così improbabile?) o dal collasso del cosmo (che a quanto pare sarebbe entrato nella sua fase implosiva, dopo ave raggiunto la sua dilatazione massima). Non sarà certo la consapevolezza del nostro collocamento (più o meno esatto) in una macroscala temporale a salvarci dalle guerre, dalla fame, dal surriscaldamento globale, dal sovrappopolamento, dalla politica corrotta, dal degrado urbano e da innumerevoli altri problemi con i quali, consapevolmente o no, siamo alle prese ogni giorno.
Allora passiamo a qualcosa che ci riguarda più da vicino, la nostra antropogenesi. L’Homo sapiens, la “razza” a cui dovremmo appartenere, sarebbe comparso circa 200.000 anni fa. Da allora la catena dell’evoluzione sembra essersi interrotta, stabilizzatasi attorno a caratteri fisici (biologici, anatomici, cerebrali) e culturali (artistici, spirituali, ideologici) relativamente stabili.
A cosa serve saperlo? Beh innanzitutto perché conoscere le nostre origini dovrebbe aiutarci a capire quali direzioni prendere, come e dove indirizzare il nostro futuro. Quali scelte intraprendere per il bene del pianeta e dell’umanità e quali decisioni sono da ponderare consapevolmente per garantire un progresso più luminoso. Ma questa è pura utopia. E non serve neanche essere tanto sapiens per arrivare a questa conclusione. Almeno questo l’uomo l’ha imparato.
Ma ci è arrivato dalla parte sbagliata. A partire da una visione antropocentrica (ci troveremmo addirittura in una nuova era, l’Antropocene, iniziata neanche mezzo secolo fa!) e a partire dai suoi errori. Senza rendere conto, come invece dovrebbe, di quel che deve alla Natura, alla quale ha solo tolto.
Non è catastrofismo, e nemmeno ecologia. L’ambientalismo è meglio metterlo da parte. Non servono teologia e catechismo per sapere che l’uomo è custode e non padrone. Essere Homo sapiens, lungi dall’essere una stato dato e certo, è una condizione che dev’essere guadagnata. Ecco il senso dell’ominazione. Arrendersi all’evidenza che l’essere umano non è l’ultima tappa, lo stadio perfetto di un percorso ormai arrestatosi.
Marco Giordano, asnatureintended, 2016. Installazione view. Courtesy of Frutta Gallery
Saranno dunque dei filamenti di silicone che pendono dal soffitto come sottili stalattiti ectoplasmatiche, tra le quali si deve vagare scostandole, a farci capire tutto questo? O saranno le stampe lenticolari dalle forme amebiche, vagamente batteriologiche, assurdamente intrappolate in blocchi di candida jesmonite? O forse ancora spettrali teste in ceramica dalle quali fuoriescono erbacce parassitiche che sembrano soffocarle, come le rovine di una piccola Angkor Wat?
Entrare in questa grotta non segnerà l’inizio di una nuova era. Ma uscirne potrebbe innescare quel distoglimento di attenzione dal prefisso antropo- (così egoistico e parziale) di cui tanto abbiamo bisogno, sospesi nel paradigma semplicistico Natura/Cultura.
Il seme è stato piantato. Il germe è destinato a crescere.
Com’è naturale che sia.
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MARCO GIORDANO
30 settembre - 05 novembre 2016