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Con Abel

Un’ora è tutto il tempo che hai deciso di concedere.

Ma è un’ora in cui concedi tutto. E tutto in quest’ora è concesso.

Cosa rimane poi? Frammenti di un tempo rubato, tra le pareti di un albergo madrileno.

Forse no, non è rubato. Stappato, certo, proprio come si carpiscono, afferrandoli convulsamente, quei momenti che, di tanto in tanto, la vita lascia inaspettatamente dietro di sé. Ma questo tempo è anche elargito, con una generosità totale e quasi sadica. Perché tu hai deciso di donarti, di offrire tutto te stesso. Senza i limiti imposti dalla pudica morale, senza i vincoli determinati dalle buone convenzioni, senza i compromessi e le inutili complicazioni che regolano, soffocandolo, ogni tipo di rapporto umano che aspiri ad andare oltre la superficie.

La proposta è semplice, sconcertante nella sua candida indecenza. Chiedi 100 euro, ma non sono per te, verranno devoluti. Non è una prestazione a pagamento quella che metti sul piatto. Due giorni di una calda primavera. 48 ore confinato in una stanza rivestita di legno bianco, l’impersonale camera di un hotel in cui intrattenere ospiti desiderati; eburnea torre e facile prigione in cui volontariamente ti sei rinchiuso, una gabbia aperta a senso unico: vi si può infatti solo entrare. 24 i figuranti in questa storia sordida e altrettanti incontri. Da una parte sognati, sperati, agognati; dall’altra dovuti, sebbene cercati.

Incontri, forse scontri, in cui permane l’incognita, ma l’incertezza è una variabile calcolata, parte essenziale di questa losca serie di appuntamenti: loro sanno di te, mentre tu non sai nulla di loro. Sei esposto e vulnerabile. Metterti a nudo non sarà solo una metafora.

Sembrano i numeri di un gioco. Una partita di cui sono fissati posta, durata e obbiettivi, ma non le regole delle singole manches. Cifre che definiscono una matematica del desiderio, economia spicciola di sensazioni estreme.

100 euro per trascorrere un’ora con te, soli. E per poterlo, doverlo raccontare.

Ma si è poi realmente soli? I fantasmi che ti perseguitano ti hanno accompagnato anche in questo viaggio. Vorresti scacciarli ma non puoi. Così, per attutire il ronzio assordante delle voci che emergono da un passato di violenze e abusi, dominato dallo spettro di una madre puttana, reagisci spogliandoti. Sembra un paradosso. Il tuo corpo si fa scudo, ma non contro inside esterne. Sono i demoni interiori quelli che devi sconfiggere. Non ti rattrappisci in un vittimismo sterile, non ti crogioli nell’ebbrezza amara dell’autocommiserazione, bensì ti esponi senza occultamenti, come se la tua pelle tatuata, ricoperta da amuleti cutanei, diventasse terreno e strumento di rituali apotropaici.

Non è forse prostituzione questa esasperata nudità? Quel muto invito ad adagiarsi sul tuo corpo martoriato, la promessa di un momento di intensa vicinanza, dolente o gaudente a discrezione del cliente.

No. È l’ostensione propria del sacrificio, della docile bestia che si immola su guanciali invece che su duri altari. Prodotto accidentale di una padre senza nome. Figlio del peccato e dello sbaglio, nel peccato e nell’errore trovi la tua personale redenzione.

Sulla tua schiena campeggiano delle grosse ali. Le ali tarpate di chi vorrebbe spiccare il volo ma rimane disteso, impigliato tra le lenzuola di un letto sfatto, nell’inerzia postcoitale che a ogni ora si rinnova.

Abel Azcona, Performance alla Galleria Rossmut, 16 novembre 2015. Photo by Caterina Rufo

Cosa offri in quella stanza? Sicuramente sesso, ma sono gli altri a chiederlo. Dopotutto sei piacente, un giocattolo ideale perché volutamente inerme, sottomesso; un ottimo pretesto per farsi una scopata. Un bicchiere di vino scadente, qualche chiacchera di circostanza, divertimento imbarazzato e confessioni inaspettate. Amico, amante o mero oggetto, puoi essere tutto questo in un lasso di tempo così breve, tutto o niente e un po’ di tutto. Non ci sono ruoli definiti in questo microcosmo di gemiti e afrori, carezze e bisbigli. Un universo il cui centro gravitazionale non è un punto dello spazio ma un grumo emotivo, nucleo pulsante di una stella che ciclicamente si spegne per riaccendersi alla prossima collisione.

Il tempo sta per finire. Chiedi di scattare delle foto, documenti parziali di un’intimità fugace, tracce di presenze che si sommano ai residui di una frenesia ovattata, vestigia di un rapporto consumato, ingoiato da minuti voraci. Porzioni dell’arredo: una poltrona in pelle lucida, una finestra socchiusa, un telefono che si erge a sentinella sul comodino. Porzioni di te: seduto o in piedi, sdraiato, il più delle volte, sul talamo infedele. Occhi, cosce e pube, dettagli della tua persona, testimonianze di ciò che sei stato.

E infine cosa rimane? Il patto prevede che i tuoi visitatori raccontino ciò che è avvenuto. Ognuno può rivendicare l’esclusiva, pretendere di essere stato unico, speciale, e legittimare a posteriori il suo distorto ius primae noctis. Poetici o scabrosi, dettagliati o impersonali, i testi metabolizzano un’esperienza ai confini dell’illecito. Cronache di una relazione destinata a vita breve, velata di assurdo ma pur sempre vera nella sua carnale contingenza.

Intanto le ore scorrono, spietate o pietose a seconda della qualità del tempo speso. In ogni caso trascorso, nel bene o nel male, con l’intento di attenuare, anche solo per un’ora, l’infinità di molte solitudini.

Galleria Rossmut [Roma, Via dei Reti 29/b]

rossmut.com

Las Horas

ABEL AZCONA

A cura di Diego Sileo

16 novembre 2015 - 27 marzo 2016

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