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Conversation Piece | Part 2

Pensata in continuità con una precedente mostra, Conversation Piece, in allestimento presso la Fondazione Memmo, si può definire come un reported speech tra gli artisti e la città.

Testimonianza di un dato acquisito dal confronto di quattro diverse personalità europee con Roma e la sua storia, la mostra si colloca in una dimensione di hic et nunc dell'arte contemporanea, una genuina conversazione a voci plurime che prende vita lungo il percorso espositivo, in contatto diretto con la città grazie alla suggestiva location che la ospita.

I quattro protagonisti di questo dialogo sono giovani talenti emergenti residenti presso diverse accademie: David Schutter, Maaike Schoorel, Jackson e Kilian Rüthemann.

Quattro dipinti di David Schutter danno l'incipit al discorso.

Residente all'Accademia Americana, Schutter verifica, riflettendo sul passato, gli esiti dell'arte contemporanea in un ottica tutta positiva.

Partendo dall'osservazione di due coppie di dipinti seicenteschi, dei paesaggi rispettivamente di Gaspar Dughet e Salvator Rosa conservati presso la Galleria Corsini, l'artista conduce su di essi una riflessione attiva: in un primo step effettua copie esatte delle opere, perfino nelle dimensioni e nella disposizione originale, utilizzando gli stessi mezzi compositivi, con l'intento di ripercorrere le fasi del processo operativo originale dei quadri, ma svolgendolo in chiave ideativa per il suo lavoro, che acquisisce in questo modo una propria consapevolezza storica.

Tale consapevolezza viene messa in opera solo in un secondo momento quando, dopo aver ultimato le riproduzioni, Schutter agisce sul risultato con un'ulteriore addizione di materia pittorica. Un procedimento, che ricorda molto da presso l'opera di Francis Bacon, il cui risultato tuttavia non si configura nell'esito di una sublime terribilità deforme, ma nell'ottimistica profondità storica della tela monocroma, composta da diverse nuance di grigio, affine alla sublime spiritualità di Rothko ma declinata nella dimensione della pittura europea.

David Schutter, GNAA PC 1 D 1a e 1b; GNAA PC 6 R 1a e 1b, 2016, olio su tela. Photo by Giulia Pollicita

Il terzo protagonista di questa Conversation, Kilian Rüthemann, residente presso l'Istituto Svizzero, riesamina il suo impatto con la città di Roma partendo dalle fondamenta, o meglio, dai “muri” portanti della sua esperienza.

Rüthemann assimila infatti l'aspetto solido e duraturo della tradizione architettonica capitolina cogliendo, al di sotto della modernità, lo scheletro archetipico della città, con quattro opere site specific in mattoni rossi di laterizio, gli Untitled (Slackers), sulla cui superficie l'artista volutamente traccia alcune crepe, per rimarcare la dimensione temporale della ricerca.

Gli Slackers di Rüthemann riecheggiano modalità processuali proprie della minimal art, stimolando una particolare reazione psicologica nell'osservatore. Questa monade strutturale del tessuto urbano si distacca infatti in senso funzionale dal suo significato, e in senso ottico dal suo ruolo di costante visiva.

La composizione, dapprima adagiata su un sostrato percettivo comune, si posa adesso sulle pareti della sala: si tratta di una mutazione metaforica e concreta del suo piano d'appoggio, finalizzata a stravolgere totalmente l'attitudine psicologica del riguardante, e ad attuare quel distacco di cui detto prima. Una decisiva forza di impatto dunque, simile a quella attuata dalla land art. Forza generata dall'isolamento indotto di questa componente urbana che subisce così una riconversione di significato di ascendenza dadaista, operata nel senso di una riqualificazione e rilettura del genius loci piuttosto che del singolo oggetto. Il fine di tutto questo? Interrompere il vizio di una fruizione passiva del vissuto metropolitano.

Come un cerchio che si chiude, la mostra si conclude con sei tele pittoriche, o almeno apparentemente tali. Si tratta dell'opera di Maaike Schoorel, artista olandese residente presso l'American Academy di Roma.

Se al di sotto della monocromia di Shütter si nascondeva una profondità storica qui, sotto la superficie di galleggianti lacerti di colore che abitano la retina luminosa dei dipinti, si nasconde una trance de vie individuale immortalato dall'obiettivo fotografico di Schoorel, ritagliato dal continuum di tempo che scorre eterno nei luoghi nel cuore della città.

Tali momenti fotografici perdono tuttavia ben presto la loro salda obiettività. Vengono infatti riconvertiti in sbiaditi stralci di memoria dal gusto evocativo, si potrebbe dire iperimpressionistico, occultati dall'ambigua addizione-sottrazione che opera l'artista, il quale aggiunge il suo tocco pittorico alla diapositiva, ma sottrae ad essa la sua identità di riproduzione della realtà, celando in questo modo le fattezze originali al di là di una sorta di velatino, che ricorda l'opera di Franco Angeli.

Maaike Schoorel gioca così con i processi di percezione e memoria del riguardante. Campo da tennis dopo un temporale o Cimitero del Verano ne sono esempio: solo con l'ausilio della memoria possiamo distinguere l'identità delle sparute macchie di colore (fiori che ornano la memoria del defunto nel loculo marmoreo), o le linee del campo da gioco ancora immerse nell'atmosfera umida. Si tratta di input visivo-mnemonici che ci costringono a rimandare il nostro giudizio, sospesi come siamo tra il tempo spazializzato della visione e la durata reale del nostro ricordo, tra materia e memoria.

Maaike Schoorel, Tennis Court after the Storm, 2016, olio su tela. photo by Giulia Pollicita

Fondazione Memmo [Roma, Via di Fontanella Borghese 56b]

www.fondazionememmo.it

Conversation Piece \ Part II

DAVID SCHUTTER, MAAIKE SCHOOREL, JACKSON E KILIAN RUTHERMANN

a cura di Marcello Smarrelli

6 Febbraio – 3 Aprile 2016

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