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Rapsodia di Nunzio*

È una mostra dai toni diversi quella ideata da Nunzio, che propone se stesso come un direttore d’orchestra coi suoi musicisti: una figura di raccordo, riconciliante, ma anche potentemente indicizzante, attorno alla quale si dispone un gruppo di dodici artisti amici, con i quali lo storico occupante del vecchio pastificio ha collaborato nel corso degli anni. L’esposizione è la quarta in programma all’interno di un ciclo di sei mostre curate da Marcello Smarrelli, che coinvolgono i protagonisti storici del luogo[1] in occasione dei dieci anni della Fondazione Pastificio Cerere e dei centodieci dalla costruzione dell’edificio.

Apre il percorso una recente scultura ambientale realizzata da Nunzio, composta da una linea orizzontale intersecante quattro linee tra loro parallele che sembrano evocare l’universo musicale. Data la massima libertà di espressione lasciata a tutti gli artisti, l’intera mostra necessita di un schema che introduca l’armonia e sostenga ogni episodio, funzione assolta da questo legno combusto, la cui forma sembra richiamare la struttura di uno spartito musicale, sul quale vanno a poggiare come note sul pentagramma le opere degli altri artisti.

La ricerca di Micol Assael prende forma in raffinati disegni su antica carta giapponese, che raffigurano circuiti elettrici non conclusi e sono raccolti all’interno di un volume allestito su una vecchia porta di ferro originaria del pastificio. Nella stessa sala si assiste al video Cinque note sulla scultura e lo spazio (2008-2013) di Calixto Ramirez, in cui compare costantemente il tema dell’interazione fra l’uomo e le forze naturali. Suscita certo interesse il mezzo artistico scelto, una telecamera, che specialmente nella nota intitolata Periplo ci permette di osservare il modo in cui il vento rigonfia la camicia di un uomo in bilico su un muretto, creando mutevoli forme scultoree, le quali molto probabilmente senza l'ausilio di un mezzo ottico capace di ampliare i nostri sensi e fissarne le percezioni, non saremmo riusciti a cogliere nella loro contingenza.

Installation view at Fondazione Pastificio Cerere. Credits: Mario Martignetti.

Il video muto b/n di Elisabetta Benassi, Son of Niobe (2013), rievocando attraverso il titolo il mito della dea trasformata in pietra dal perpetuo pianto i cui numerosi figli furono uccisi a causa della sua superbia, sembra voler interpretare il senso delle scene storiche estrapolate dall’artista da documenti e immagini d’archivio, e alloggia nella geografia disabitata di Carmine Tornincasa realizzata con l’opera pavimentale Nomi Propri – Storie Comuni (2005-2015), un tappeto di vestiti usati. Entrambe le opere all’interno dell’esposizione emergono come un unico momento di raccoglimento e riflessione sull’attualità (Tornincasa) e sul tempo (Benassi), una lunga gelida pausa interrotta da un bicchiere di germogli di frumento[2], un augurio di rinascita posto sopra una mensolina come ricordo del tiepido senso primaverile in inverno.

Attraverso l’intervento minimale di Jose Angelino, Arco-Welcome (2015) lo spettatore è immesso violentemente nello spazio del contemporaneo, rappresentato dalla postazione tatoo Ieri mi innamorerò di te, in cui Francesco Landolfi nel corso di tutto il vernissage incide un poliedro sul petto di un giovane.

Ad aprire la zona contemporanea più attuale sono i rumori ambientali prodotti dal gas argon delle stecche luminose dell’installazione di Angelino e quelli della macchinetta per tatuaggi di Landolfi, un ronzìo che trasporta le sensazioni del visitatore come naturale estensione dello spazio al di fuori dalle sale, fino nel cortile del palazzo, dove i suoni fluttuanti giungono a mescolarsi all’esecuzione dal vivo di una performance musicale di NPN prodotta con sintetizzatori analogici e drum machine, creando un’esperienza percettiva irripetibile.

Performance NPN, C21H28O5, at opening 519+40, 19 ottobre 2015, Credits: Pierpaolo Lo Giudice.

La “rumorosa” zona del contemporaneo più attuale poteva condurre taluni ad abbandonare il luogo e talaltri a rientrare nelle sale per terminare il percorso rapsodico. Decidendo di continuare, ci si trova ora nella sala maggiore dove Fabio di Camillo espone Inanis Uniloba (2015), un piombo dalle forme ornamentali che ricorda vagamente la coda di pavone, un ventaglio, o le foglie d’amaranto; l’assenza di vitalità in luoghi così “leggeri” è il paradosso dell’opera, che nel suo scheletro sembra riecheggiare gli ultimi versi di una poesia matura di Gottfried Benn (Gente incontrata): <<Mi sono spesso domandato e non ho trovato risposta,/da dove venga la dolcezza e il bene,/nemmeno oggi lo so e ora devo andare>>.

All’opposto l’installazione quasi invisibile di Manuela Savioli nella sua apparente estrema linearità sembra smentire l’opera di Fabio di Camillo: due fogli di alluminio e nylon appesi simmetricamente al muro uno accanto all’altro, sono perennemente “mossi” da un meccanismo di micromotori (posto sul resto dell’opera) che diviene rappresentazione oggettuale di quel che le neuroscienze definiscono tracce mnestiche. In effetti l’opera altro non è che una rappresentazione congeniale di un movimento esterno e interno, attivante un processo di percezione nel visitatore attraverso un procedimento (del tutto meccanico) di elaborazione interna dell’opera, che si potrebbe definire la rappresentazione di un engramma interiore.

Installation view at Fondazione Pastificio Cerere. Credits: Mario Martignetti.

Adrian Tranquilli presenta Don’t forget the Joker (2010/2015), uno scuro puzzle in smalto su carta e legno, riferibile a un precedente cortometraggio in cui il ghigno mefistofelico jokeriano era calzato a pennello da Achille Bonito Oliva. Nel suo lavoro l’artista mira a depotenziare la valenza simbolica del supereroe, impantanandolo nella vasta palude delle emozioni, dell'alto contatto, da cui l’essere umano si è allontanato da lungo tempo, distaccando sempre più se stesso dalla sua realtà simbolico/affettiva e universale/collettiva. Ragion per cui per l’artista il “mito” dell’uomo eroe deve finire una volta per tutte.

Riconciliante con la parte più ancestrale di noi stessi sembra essere, invece, l’Escalera de caracol (2015) di Jorge Peris[3], un alone di arcaicità e magia avvolge la scala impossibile di Peris, la cui energia vitale risuona l’ambiente come l’effetto delle antiche e potenti vibrazioni dell’oud arabo. L’opera, puro frutto di una sana follia, chiude il concerto battendone i ritmi più alti e rivelando lo spirito di homo sapiens e ludens dell’essere artista, per tornare infine, dopo tanto fracasso, alle frequenze intime e sensibili dell’opera di Nunzio, che si affaccia come un saluto, una stretta di mano all’uscio dopo la fine della festa.

* Con l'ascolto partecipato e fuggevoli arrangiamenti di Noemi Longo, consigli e suggerimenti di Giulia Di Fazio ed Edoardo Maggi.

[1] Nunzio fu il primo nel 1973 a prendere in affitto un ambiente all’interno dell’ex pastificio per trasformarlo in studio, tutti gli altri (Ceccobelli, Dessì, Gallo, Pizzi Cannella e Tirelli) seguirono tra il 1978 e il 1982. Da un saggio di Guglielmo Gigliotti, contenuto nel volume Il confine evanescente. Arte italiana 1960-2010, a cura di Gabriele Guercio e Anna Mattirolo, Mondadori Electa, Verona 2010, p. 40, nota 7.

[2] Si fa riferimento all’altra opera di Carmine Tornincasa esposta nella sala: Frumento (2015), vetro, legno, germogli di frumento.

[3] Si consiglia la lettura di una recente intervista dell’artista a cura di Matteo Mottin, ATP DIARY, Roma, 29 maggio 2015, http://atpdiary.com/jorge-peris-magazzino/.

Fondazione Pastificio Cerere [Roma, Via degli Ausoni 7]

pastificiocerere.it

519+40

a cura di Marcello Smarrelli

19 ottobre 2015 – 7 gennaio 2016

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